"Il vizio assurdo" è forse il libro più autentico che sia stato scritto su Cesare Pavese perché è il libro di un amico. L'ultimo messaggio lasciato all'albergo Roma di Torino, sulla prima pagina di "Dialoghi con Leucò", accanto alle sedici bustine di sonnifero sul comodino, era stato quello di non fare troppi pettegolezzi.
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Soltanto uno che era nato nelle stesse colline e che gli voleva veramente bene avrebbe potuto prendersi cura della sua memoria con tutto il pudore, la sensibilità e il coraggio necessari, perché lo sentiva come «un atto di riparazione». È il compito che si assunse Davide Lajolo: ripercorrere la vita di Pavese dalle Langhe dell'infanzia al leggendario liceo D'Azeglio, da via Biancamano al confino; risalire a ritroso nel suo talento e nelle sue ombrosità; rivelarne il bisogno di una casa, il desiderio di tenerezza, le tremende delusioni; riesaminare le sue opere, il male di vivere, l'angoscia per la donna, il vizio della scrittura e il suicidio. Nel tentativo di rispondere a una domanda ineludibile: «Potevamo fare di più, allora, quando viveva accanto a noi?» ne venne fuori un racconto di cui si avverte ancora tutta l'urgenza e il coinvolgimento e che disegna la mappa di un'intera generazione e delle sue tragedie. Soltanto un amico poteva affrontare questa storia a occhi aperti, senza arretramenti né finzioni, e restituircene fino in fondo la verità più intima.
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