Il corpo di tre quarti, la gamba destra piegata all'indietro, il tacco che colpisce il pallone e manda fuori tempo gli avversari. Se si potesse fermare la carriera di Roberto Mancini in un attimo, riassumerla in un solo gesto, sarebbe questo.
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Una vita calcistica trascorsa all'insegna del colpo a effetto, con un bagaglio tecnico sterminato e una personalità dirompente, quella che gli ha permesso di vincere trofei con la Sampdoria, compreso uno scudetto che rappresenta una delle ultime grandi imprese del calcio italiano e del quale proprio nel 2021 cade il trentennale, e la Lazio. Vittorie significative, arrivate fuori dal giro delle «grandi» storiche. Ma forse quel carattere e quella personalità hanno finito per impedirne un'ascesa ancora maggiore. Marco Gaetani racconta uno dei talenti più limpidi passati per la Serie A negli ultimi quarant'anni, e non ne nasconde gli eccessi caratteriali. «Mancio», esploso ai massimi livelli quando era ancora un adolescente, ha saputo adattarsi presto a un mondo di altissima competitività, senza mai rinunciare al suo modo di intendere la vita e il calcio. Tanti hanno provato a trasformarlo in un centravanti moderno ma hanno dovuto fare i conti con la sua voglia di essere un numero 10, tanti lo hanno amato a prescindere dai suoi improvvisi momenti no. Con la maglia azzurra Mancini è stato atteso invano: il feeling, almeno sul campo, non è mai nato. È poi sbocciato da allenatore, al culmine di un altro percorso, avviato quando ancora non sentiva di aver davvero tolto gli scarpini. E ora, forse, Mancio ha finalmente fatto pace con l'Azzurro.