La passione di Jamaica Kincaid per piante e fiori risale a quando, ancora bambina, mentre imparava a leggere sulla Bibbia, ha esplorato il suo primo giardino, l’Eden.
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Scaturita prima che avesse familiarità «con quell’entità chiamata coscienza» e poi tenacemente coltivata, tale passione l’ha portata anni dopo a intraprendere in compagnia di tre botanici un viaggio sulle colline pedemontane dell’Himalaya, alla ricerca di semi da piantare nel suo giardino del Vermont. Tre settimane di faticoso cammino, fra paesaggi sempre mutevoli, di una bellezza vertiginosa e allarmante – inquietanti strapiombi a pochi centimetri dai piedi, improvvisi sbalzi di temperatura, le onnipresenti sanguisughe, guerriglieri maoisti mai indulgenti con chi proviene dagli Stati Uniti –, che hanno dato vita a questo piccolo libro, solo in apparenza diverso dai precedenti, dove la prosa di Kincaid conserva la stessa «spontaneità sontuosa» che le aveva attribuito una volta, con calzante precisione, Susan Sontag. Una spontaneità che le permette di gettare, anche se solo di sfuggita, uno sguardo radente sugli effetti perduranti e duraturi del colonialismo, ma anche sul senso più nascosto dell’esistenza, in un ambiente che – come quello himalayano – annienta le nostre nozioni di spazio e di tempo.
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